2001 – 200Z
La nostra è una storia di resistenza
In questi anni abbiamo camminato, rallentato, combattuto, litigato, amato. Ci siamo rimboccati le maniche, ci siamo sentiti scoraggiati, ci siamo sentiti forti. Abbiamo incontrato persone, stabilito contatti, creato situazioni e relazioni. Abbiamo superato difficoltà e ci siamo scontrati con i nostri limiti. Abbiamo progressivamente ridotto la distanza tra la nostra vita privata e la vita sociale, tra la vita sociale e la vita politica.
Sempre in bilico tra il delirio e la passione.
Sempre combattuti tra la resa e la resistenza.
Abbiamo resistito.
Il 20 Marzo 2001 fu il giorno dell'occupazione. È una data che nessuno di noi dimenticherà mai. È la data in cui, ancora non del tutto consapevoli, abbiamo svoltato e scelto una direzione. Eravamo un gruppo di gente (per la maggior parte studenti) che proveniva da esperienze diverse: occupazione dell'università, box autogestiti alla facoltà di lettere, incontri seminariali sulla non-violenza, coordinamenti cittadini contro la guerra (in Kossovo).
Il comune denominatore era veramente minimo e non ben delineato.
Sapevamo che la guerra, il razzismo e la globalizzazione economica non ci piacevano, ma se ci avessero chiesto di spiegare dettagliatamente il perché ognuno di noi avrebbe probabilmente dato una risposta diversa. Ma di necessità si fa virtù e dell'eterogeneità facemmo il nostro fiore all'occhiello. Anarchici, comunisti, non-violenti, disadattati, curiosi... uno perché si vuole mettere in gioco, uno perché è amico di quell'altro, uno perché un centro sociale è una cosa figa, uno perché cosimipossofarelecanneinpace, uno perché chissacosavienefuori...
All'inizio dalle nostre bocche veniva fuori l'espressione "creare un luogo di socialità alternativa" che non fosse dominato dal concetto di scambio denaro-merce ma da quello di scambio altro-altro, aperto, accessibile, gratuito. L'espressione, per fortuna, l'abbiamo abbandonata, ma il concetto, di nuovo per fortuna, lo abbiamo custodito.
Sentivamo anche l'esigenza di dissacrare, di svecchiarci, di ironizzare sulle nostre storie, se non proprio di ucciderli, magari di lasciarli a casa i nostri padri, davanti a una stufetta. Cosi usavamo il termine compagni sempre col sorriso sulle labbra, disegnavamo il terzo occhio sul poster del Che e, nonostante l'abbiamo spacciato per acronimo, ZETA non voleva dire assolutamente niente.
Bene, avevamo uno spazio: concerti, dibattiti, presentazioni di riviste, cineforum; ma anche pulire, sbattersi, avere a che fare con la polizia.
E con la polizia ci abbiamo avuto a che fare molto da vicino il 16 Maggio sempre del 2001: a tre giorni dalla vittoria elettorale di Berlusconi vengono sgomberati contemporaneamente il Laboratorio zeta e l'ex carcere, un altro centro sociale di Palermo nato una settimana prima di noi.
Allo zeta le modalità dello sgombero sono piuttosto violente con manganellate e la muratura della porta d'ingresso. La stessa sera buttiamo giù il muro e rientriamo. Un po' di perplessità, una grossa carica emotiva (la conseguenza di questa vicenda è un processo a quattro persone, appena conclusosi con la piena assoluzione).
Da quel giorno ripartiamo con manifestazioni per gli spazi sociali, attività culturali, relazioni con altri soggetti politici attivi in città. Genova. L'importante esperienza del Forum Sociale Siciliano. Gente che ci sta vicino, gente che tira le pietre alle nostre finestre. Gente che abbandona, gente che passa e se ne va, gente che rimane.
Il primo Marzo 2003 al Laboratorio c'era la rappresentazione di uno spettacolo teatrale nato e prodotto al suo interno. Arriva una telefonata. Ci dicono che un gruppo di 53 Sudanesi richiedenti asilo politico è intenzionato a passare la notte davanti la Prefettura per rivendicare il loro diritto ad un'accoglienza dignitosa quale lo status di rifugiato prevede. Be', che si fa? Andiamo a dare un'occhiata? Andiamo a dare un'occhiata. Li vediamo, li incontriamo, parliamo con loro.
Erano ospiti della struttura mandata avanti da Biagio Conte, un frate che dà ospitalità a migranti e senzatetto; in seguito ad alcune divergenze sulla gestione della struttura incompatibile con la loro attività politica volta a diffondere la conoscenza della drammatica situazione di guerra civile in atto in Sudan, tre di loro erano stati invitati a lasciare il centro, ed erano usciti seguiti dal resto della comunità.
Con lo spirito d'improvvisazione che ci caratterizzava offriamo loro il nostro spazio per una, due notti al massimo, giusto per avere un tetto sotto il quale organizzare le vertenze al Comune e alla Prefettura e sotto il quale dormire.
Mai uno spazio fu meno adatto del nostro a quest'ultimo scopo: una stanza grande, cartoni a terra. Non avevamo materassi, non avevamo acqua corrente, non avevamo cibo. Niente. I ragazzi si riuniscono, discutono. Ci riuniamo con loro, discutiamo con loro. Troviamo un interprete. Scendiamo in piazza. Ci organizziamo. Recuperiamo materassi e oggetti di uso comune. Creiamo una scuola di italiano. Costituiamo un'associazione per poter ricevere cibo dal Banco alimentare.
I Sudanesi rimangono allo zeta e inizia un'esperienza di cogestione decisamente singolare tra difficoltà dovute alla lingua e resoconti di storie tragiche. La questione dell'asilo politico e più in generale dei migranti diventa la nostra questione politica. Su questo aggreghiamo una rete di associazioni e singole persone che sostengono la nostra lotta e lavorano insieme a noi.
Il Comune, pur non riconoscendoci sulla carta, ci allaccia l'acqua corrente e paga le bollette. A tre anni di distanza la situazione è cambiata. I migranti che vivono allo zeta non sono più soltanto Sudanesi e non sono più soltanto richiedenti asilo. Nel frattempo abbiamo partecipato a vertenze nazionali e locali in favore dei migranti con manifestazioni a Roma contro la legge Bossi-Fini e in varie parti della Sicilia per la chiusura definitiva dei CPT senza se e senza ma.
Eravamo presenti alla vicenda della Cap Anamur e da lì abbiamo dato vita insieme ad altri soggetti alla Rete antirazzista Siciliana. Gente che abbandona, gente che passa e se ne va, gente che rimane. Rapporti che cambiano, relazioni che si intrecciano. Accanto alla questione dei migranti abbiamo continuato ad occuparci di altre questioni sociali, culturali e politiche in città e a livello nazionale: sostegno alla lotta dei senzacasa di Palermo, diffusione di informazioni e creazione di iniziative sul software libero, laboratori di danza, seminari di economia politica, creazione di spettacoli teatrali, partecipazione a comitati cittadini contro la privatizzazione dell'acqua.
Ancora concerti, ancora dibattiti, ancora presentazioni di libri e riviste, ancora collaborazioni. Nell'autunno 2005, grazie alla donazione del padre di una nostra amica, abbiamo inaugurato una piccola biblioteca all'interno del laboratorio che è cresciuta grazie ad altre donazioni e speriamo cresca ancora.
Intanto continua la lotta per i diritti dei migranti: nell'agosto del 2005 organizziamo, insieme a tutti i soggetti della RAS, un campeggio antirazzista, all'insegna del motto "essere là dove le cose accadono". Per alcuni giorni duecento persone provenienti da tutta Italia si muovono lungo la costa sud della Sicilia, assistendo direttamente ai meccanismi di "gestione" degli sbarchi messi in atto dal governo italiano. Ma non ci limitiamo ad assistere. Interveniamo materialmente riuscendo ad introdurre qualche granello di sabbia all'interno dell'ingranaggio: tra presidi al porto di Porto Empedocle, manifestazioni davanti e "dentro" ai CPT dell'isola, incontri con gli amministratori locali per proporre forme alternative di accoglienza, la pagina più bella è scritta proprio da un gruppo di migranti, che approfittando della nostra azione, riesce a riprendersi con le proprie mani il proprio destino, verso un futuro incerto ma libero e da scrivere in prima persona...
E ancora nel settembre 2006 costruiamo, insieme a molti altri soggetti, una manifestazione che porta a Lampedusa in nave centinaia di persone contro le politiche del governo sull'immigrazione. Preceduta da ridicoli annunci giornalistici, stile "invasione di no-global", è invece una bellissima giornata, in cui veniamo a contatto con la realtà lampedusana, e possiamo constatare direttamente come la realtà sia più complicata delle semplificazioni giornalistiche.
In tutti questi anni la storia dello zeta è stata scritta dall'intrecciarsi dei percorsi che lo hanno attraversato: è difficile trovare un discrimine netto tra ciò che è avvenuto dentro le sue mura e quello che accadeva al di fuori. Tentare di coglierne le connessioni è la sfida che ci siamo posti quotidianamente.
Perciò è stato naturale per noi partecipare attivamente alla lotta del Comitato 12 Luglio e delle famiglie di senza-casa che in questi anni hanno portato avanti un cammino esemplare di presa di coscienza dei propri diritti associata a pratiche incisive di rivendicazione e di lotta: ci siamo ritrovati assieme a loro nelle diverse occupazioni della Cattedrale, della sala del Consiglio Comunale di Palazzo delle Aquile, di Palazzo La Rosa, del palazzo confiscato alla mafia di via Margifaraci; a condividere, pur partendo dalla diversità delle condizioni di vita, la consapevolezza che è necessario trovare da sé le soluzioni ai propri problemi, senza aspettare che il politico o l'amministratore di turno concedano qualcosa (magari in prossimità di scadenze elettorali), ma proponendo e praticando soluzioni concrete e realizzabili. E così, oltre alla proposta di utilizzare i beni confiscati alla mafia per risolvere il problema abitativo, oltre ai mille tavoli tecnici e alle graduatorie, nell'autunno 2008 un gruppo di famiglie del Comitato e la Rete di sostegno, di cui facciamo parte, occupano uno stabile abbandonato in piazza Guzzetta, alle spalle delle poste centrali. Iniziano giornate di lavori, pulizie e ristrutturazioni. Ma non si tratta soltanto di trovare un tetto a persone che non hanno una casa. Significa praticare forme di autorecupero e dare vita ad un'esperienza di convivenza inedita, che pur con tutti i problemi e i limiti rappresenta un esempio importante per la città.
Diritto alla casa, diritti dei migranti, beni comuni, antimafia, spazi comuni, metropoli: terreni complessi che sentiamo intrecciati strettamente tra loro... ma come fare a "leggere" e interpretare le trasformazioni della città con gli strumenti vecchi e inadeguati delle ideologie tradizionali? Come fare a legare assieme problematiche e fatti che potrebbero apparire distanti? Quali linguaggi nuovi adoperare? È da domande come queste che nasce l'esigenza di dotarci di uno strumento nuovo per noi. Ed insieme a vecchi e nuovi "compagni di viaggio" prende forma il progetto che sfocia nel dicembre del 2007 nella nascita di kom-pa.net. Kom-pa è un webmagazine, o, come abbiamo "pomposamente" scritto, un osservatorio transmediale, che mette insieme contributi di natura diversa (testuale, audio, video...) per cercare di sviluppare un'indagine e una riflessione critica sui processi di trasformazione della città, che non si fermi alla mera informazione, ma prenda la strada dell'elaborazione e dell'approfondimento. In un anno e mezzo sono stati molteplici i temi toccati e le forme utilizzate, gli incontri proficui e le difficoltà affrontate, in un lavoro continuamente "in progress" che continua modificandosi progressivamente.
Nel frattempo sono continuate le attività al laboratorio: presentazioni, rassegne cinematografiche, laboratori, concerti, la scuola di italiano per stranieri; persone che hanno vissuto con noi per qualche tempo che quando possono tornano a portare un saluto e a vedere come vanno le cose, persone che vanno via... sorrisi, pianti, incazzature, ansia e gioia...
Qualche settimana fa una nuova svolta, una delle tante. Questa volta una minaccia che viene dall'esterno. Una fantomatica associazione che reclama il diritto ai locali di via Boito 7, assegnati con un bando dallo IACP, una sentenza di un giudice, l'ingiunzione di sgombero portata dall'ufficiale giudiziario. Ad accogliere lui e i rappresentanti dello IACP e dell'associazione Aspasia, il 22 aprile 2009 eravamo in tanti. Non solo noi del laboratorio e i suoi abitanti, ma anche persone con cui in questi anni abbiamo condiviso tante cose. Abbiamo detto chiaramente che lo zeta non si tocca, che di andarcene non avevamo affatto intenzione. L'ufficiale giudiziario ha rimandato la questione al 22 giugno.
In due settimane più di 1500 persone e realtà di Palermo e non solo hanno sottoscritto l'appello a sostegno dello zeta, dichiarando che "il Laboratorio Zeta è anche la nostra storia".
Una storia che continua. Sempre viaggiando, sempre interrogandoci, sempre lontani dal Valore Assoluto dell'Ideologia, rivendicando l'assenza di un'identità forte. Molteplici, mutanti, meticci. Abbiamo tenuto insieme la lotta e la cura, la rabbia e la tenerezza, l'entusiasmo e l'amarezza. Alcuni hanno abbandonato, alcuni sono arrivati, alcuni sono passati e sono andati via, alcuni sono rimasti. Zetalab resiste. |