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Vertigo
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Vertigine: disturbo dell'equilibrio che si manifesta con la sensazione dello spostamento del corpo rispetto all'ambiente o viceversa. Questa la definizione canonica, legata per lo piu' a quello che si prova da una certa altezza nel momento in cui si guarda in basso.
Dal senso di "vertigine" e' partita l'idea di mettere insieme cinque film, cinque storie che anziche' svolgersi in orizzontale avessero uno sviluppo verticale.
In effetti tutti i nostri protagonisti compiono una sorta di scalata, metafora di qualcosa che desiderano fortemente raggiungere, che li spaventa e attrae allo stesso tempo; e non e' solo l'altezza a dare loro vertigine ma "soprattutto" cio' da cui sono mossi. Ecco allora che il concetto di vertigine da cui siamo partiti, forse puo' anche essere associato a quella perdita di equilibrio (razionalita') che domina l'uomo quando si smarrisce negli occhi di una donna, o viceversa.
In questa nuova accezione appunto piu' psicologica che patologica, troviamo che questi film possano rappresentare, in modo trasversale, il senso di vertigine. Buona visione.
Tutti i Giovedi' - ore 21.30
Ingresso: 1 euro
>> 25 gennaio
>> La donna che visse due volte
(1958)
di A. Hitchcock
Soggetto: dal romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narcejac "D'entre les morts"
Sceneggiatura: Alec Coppel, Samuel Taylor
Fotografia: (Technicolor Vistavision) Robert Burks
Scenografia: Hal Pereira, Henry Bumstead
Costumi: Edith Head
Montaggio: Sam Comer, Frank McKelvey,George Tomasini
Musica: Bernard Herrmann (diretta da Muir Mathieson)
Prodotto da: Alfred Hitchcock per la Paramount;
(USA, 1958)
Durata: 120'
Distribuzione cinematografica: UIP
Personaggi ed Interpreti
James Stewart, John 'Scottie' Ferguson
Kim Novak, Madeleine Elster/Judy Barton
Barbara Bel Geddes, Marjorie 'Midge' Wood
Tom Helmore, Gavin Elster
Henry Jones, Coroner
Raymond Bailey, Dottore di Scottie
Ellen Corby, Proprietaria del McKittrick Hotel
Konstantin Shayne, Pop Leibelu'
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Immancabile il connubio tra arte e psicologia in questo capolavoro di Hitchcok dall'atmosfera densa e "desiderante".
E' un film in cui lo spettatore assiste al tempo "emotivo" del protagonista, l'occhio della telecamera appare modellato sulle sue paure, i sui desideri, quasi come se le scene fossero situazioni anelate piuttosto che realmente vissute, acquisendo cosi' la forma della perfezione.
Le telecamere realizzano un brillante effetto vertigine, rendono fatti e luoghi complici di un modo di sentire, tanto da combinare oggetti concreti e sensazioni vissute in una gestalt dal significato inscindibile e contemplativo.
Cio' genera un'atmosfera straordinaria.
I luoghi sono atmosfera, cosi' come pure i gesti (bellissima la scena a casa di Scottie dopo aver salvato Madeleine, o quando si recano nei boschi di Muir che sembrano creati proprio per raccogliere quel loro momento).
Angoli di San Francisco acquistano una dimensione surreale, mentre tutto "ruota intorno" al senso di vertigine che funge da rilievo e sfondo ad un intrigo incentrato sul senso di colpa, la passione e la paura dell'oblio.
La vertigine "psicologica" dirige il gioco, creando un baratro fisico-interiore fatto di terrore di fronte alla vista del vuoto e di smarrimento di fronte all'incapacita' di liberarsi dai sensi di colpa, dovuti prima dal vano tentativo di salvare un amico e poi la donna amata.
Nella seconda parte del film Hitchcok svela l'intrigo allo spettatore, ora tutti sanno tranne il protagonista non ancora pronto ad affrontare la realta'.
E' un momento in cui la storia si fa da parte per lasciare l'intera scena al protagonista, alla sua sensibilita', alla sua ricerca/terrore dell'oblio.
Scottie incontra Judy, cosi' simile all'amata Madeleine.
Riaffiorano le due tendenze, il conflitto, la vertigine: fascino del vuoto e paura di cadere.
Una vertigine per l'altezza, dell'amore, vertigine dell'ossessione, un'ossessione che si rivela, sul finale, la strada per la salvezza.
L'ossessione prende forma in richieste maniacali fatte a Judy, richieste chiaramente prodotto di questa doppia tendenza.
Il sospetto nei confronti della donna che ha di fronte, un dubbio ancora sommerso, ma comunque presente e pressante, lo spinge a ricercare una verita' che e' palesata davanti ai suoi occhi, ma che ha il sapore del baratro e per questo ancora inaccessibile.
L'istinto, questa volta, e' di andare in fondo, giu', giu', nella zona buia del precipizio, ed infine, accolto quasi come una liberazione, il dubbio si rivela, la ragione ricostruisce, la vertigine sembra essere svanita.
Angela
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>> 1 febbraio
>> Preferisco l'ascensore
(1923)
F.C. Newmayer-S.Taylor
Durata: 74'
Produzione: Hal Roach Studios, Stati Uniti
Regia: F. Newmeyer, S. Taylor
Sogg. e scenegg.: H. Roach, S. Taylor, T. Whelan
Fotografia: W. Lundin
Montaggio: T.J. Crizer
Interpreti:
Harold Lloyd,
Mildred Davis (la ragazza),
Bill Strothers (Limpy Bill),
Noah Young (Poliziotto),
Westcott B. Clarke (Mr. Stubbs),
Anna Townsend (cliente),
Charles Stevenson (uomo dell'ambulanza),
Gus Leonard (impiegato),
Helen Gilmore (cliente),
Fred Newmeyer (uomo in macchina),
Wallace Howe (uomo con i fiori)
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America anni '20: l'economia cresce a ritmi impressionanti, la rivoluzione fordista in atto promette benessere e opportunità per tutti. E' l'epoca della ricchezza facile, delle infinite possibilità di realizzazione personale, del futuro assicurato per chi è abbastanza sveglio da cogliere al volo le occasioni, per chi è capace di "costruirsi da sè". Sono gli "anni ruggenti", connotati da una forte fiducia nelle capacità demiurgiche dell'individuo e nelle possibilità di miglioramento della società. Ci penserà la crisi del '29 a svegliare gli americani dal sogno e a riportarli con i piedi per terra (e con loro tutto il mondo), tra le difficoltà e le miserie quotidiane. Ma per il momento tutto sembra facile, le sfide (al rialzo) sono continue, il mondo si trasforma.
Alle sconfinate praterie e ai territori inesplorati, scenario sul cui sfondo si era svolta l'epopea della frontiera, si sostituisce l'orizzonte affollato della città, con i suoi ritmi frenetici, le attività che fervono, la produzione che non si ferma mai. E' la città la nuova dimensione entro la quale l'individuo può mettere alla prova le proprie capacità e può trovare la strada che lo porterà al successo; è la città il nuovo campo in cui questa sfida assume una nuova dimensione spaziale: l'eroe non è più chiamato alla conquista del territorio da sfruttare attraverso lo spostamento continuo della frontiera, ma deve compiere il suo percorso puntando alla scalata sociale, la sua meta non è posta oltre ma in alto. Si passa dalla dimensione orizzontale a quella verticale.
"Preferisco l'ascensore" coglie in pieno questo passaggio, che da metafora sociologica e storica diventa concreta realizzazione individuale, attraverso un'incredibile performance di Harold Lloyd che per realizzare il suo sogno e migliorare il suo status sociale non escogita niente di meglio che seguire lo sviluppo verticale della città, trovandosi costretto a scalare a mani nude un grattacielo: l'"american dream" incarnato nel corpo di un tranquillo uomo "medio", nel quale gli spettatori potevano identificarsi immediatamente.
E' a partire da pochi, semplici elementi che si sviluppa la forza comica del film: la costruzione dell'equivoco o dell'inganno che innesca situazioni paradossali, la mimesi dei ritmi della vita moderna, la capacità di usare il corpo in movimento come mezzo di espressione. A dare unità a tali elementi troviamo la figura di Harold Lloyd, vero e proprio mattatore, che grazie all'abilità gestuale e alla spericolatezza (durante le riprese ha subito diversi incidenti), riesce a creare un mondo originale con semplice leggerezza.
Nino Termotto
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>> 8 febbraio
>> Dopo mezzanotte
(2004)
di D. Ferrario
Paese: Italia
Anno: 2004
Durata: 92'
Genere: commedia / sentimentale
Soggetto: Davide Ferrario
Sceneggiatura: Davide Ferrario
Attori:
Giorgio Pasotti: Martino
Francesca Inaudi: Amanda
Fabio Troiano: l'Angelo
Francesca Picozza: Barbara
Silvio Orlando: il Narratore (voce fuori campo)
Fotografia: Dante Cecchin
Montaggio: Claudio Cormio
Effetti speciali: Grande Mela
Musiche: Banda Ionica,Fabio Barovero,Daniele Sepe
Scenografia: Francesca Bocca
Premi:
54° Festival internazionale del cinema di Berlino
David di Donatello 2005:
Miglior regia
Migliore sceneggiatura
Miglior produttore
Migliore attore protagonista
Migliore attore non protagonista
Migliore direttore della fotografia
Miglior scenografo
Miglior montatore
Premio Saint-Vincent per il Cinema 2005:
Grolla d'Oro all'innovazione
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Un omaggio al cinema attraverso un luogo (la Mole) che la storia del cinema la custodisce. Un luogo reso ancora piu' suggestivo dalle immagini, dalle scenografie e dai primi esperimenti dell'invenzione del secolo appena trascorso. Al suo interno Martino ne e' il custode, ma a suo modo forse qualcosa di piu': si aggira nella Mole con sorprendente familiarita', come se l'avesse ridotta ad una dimensione domestica, privata, cosicche' ne conosce gli angoli piu' nascosti e i segreti. Un luogo magico che si staglia nella citta', visibile da ogni punto, dal quale Martino prende quello che non trova all'esterno, si nutre di mele e vecchie pellicole e ne scopre l'immenso fascino. Nella Mole c'e' un mondo che sente piu' vicino, un mondo artificiale ma che gli da' una certa sicurezza. Questa Martino la considera gia' una buona dose di felicita'. Ma bastera' a fare di lui un uomo felice?
Dall'alto della Mole Martino si interroga e da questo punto di osservazione insolito si fa un'idea: che forse nel mondo un qualche ordine esiste, una specie di formula matematica secondo la quale le cose vanno in un certo modo e non in un altro; e che quindi, forse, la risposta e' non farsi troppe domande.
Walter Santino
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>> 15 febbraio
>> King Kong
(1933)
di M.C. Cooper-E.B. Schoedsack
tratto da un racconto di Edward Wallace
Sceneggiatura: James Creelman, Ruth Rose
Effetti speciali: Willis O'Brien, Marcel Delgado, E.B.Gibbons
Cast: Fay Wray, Robert Armstrong, Bruce Cabot, Frank Reicher, Sam Hardy, Noble Johnson
Produzione: RKO/Miriam C.Cooper
Durata: 100'
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King Kong, l'ottava meraviglia del mondo, è arrivato a New York, con tutto il suo carico di bestialità repressa, di naturalità domata. Un produttore in cerca di facili successi, una bella attrice disposta a qualsiasi parte pur uscire dal suo stato di indigenza, un ufficiale pronto sin dalla prima inquadratura a innamorarsi di lei, un equipaggio, una nave che solca l'oceano, l'hanno portato qui. Da eroi, in una dimensione epica di scontro tra noi e gli altri, riescono a sopraffare la bestia, temuta e adorata come un dio dagli indigeni. Se Kong è la natura da tenere a bada, i sacrifici umani che gli indigeni gli offrono, sono il giusto prezzo da pagare. I nostri, invece, non si accontentano dei sacrifici offerti ad una causa senza senso come il denaro, vanno oltre, oltre ogni recinto sacro, nella tana del mostro, per sottometterlo a un più ingiusto ordine, per spodestarlo del suo potere terrorifico, per farne spettacolo. Kong «era il re, era il dio di quel suo mondo, ma ora è nelle mani della civiltà, è un semplice prigioniero che serve a soddisfare la vostra curiosità», a distrarre quel popolo americano dai gravi problemi sociali che la recessione economica aveva creato. Ma appena sotto i riflettori Kong rompe le regole del gioco e dà inizio alla sua vertiginosa scalata verso il trono della civiltà, in una lotta persa in partenza con i padroni del nuovo mondo.
Kong è la brutalità della natura che si ribella alla sua illogica sottomissione, è l'irriducibilità del mondo ad un progresso già in crisi, è il dissenso anestetizzato coi buoni e sani valori dell'eroismo americano, è la rivoluzione soffocata sul nascere in nome di una ideologia, che uccide con le armi e inganna con la bellezza: «è stata la bellezza che ha sconfitto la bestia».
Alessandro Scibetta
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>> 22 febbraio
>> Kiki, consegne a domicilio
(1989)
di H. Miyazaki
Titolo originale: Mayo no takkyubin
Giappone 1989
Regia: Hayao Miyazaki
Soggetto: Eiko Kadono
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Musiche: Joe Hisaishi
Durata: 102'
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Nel cinema di Miyazaki spesso il mondo della natura e della magia si fondono per dare vita a scenari fantastici e di grande bellezza, dove la natura è quasi una manifestazione del divino e la magia ritrova una dimensione consueta e naturale. Anche questa lieve fiaba ripropone i temi cari all'autore, grande cantore di un mondo fantastico e puro: il passaggio dall'infanzia all'età adulta, la magia, la contemplazione della natura. All'amore per la natura, però, Miyazaki accosta qui quello per la città: non la metropoli contemporanea, ma un luogo a misura d'uomo, ricalcato sull'esempio delle città mediterranee, dove il mare si impone come una presenza vitale. Il film è ambientato in "un'Europa fantastica in cui non è mai avvenuta la seconda guerra mondiale": un occidente immaginario quanto l'oriente spesso sognato da tanti artisti occidentali. È qui che la piccola Kiki decide di svolgere il suo noviziato da strega, volando con la sua scopa tra il traffico cittadino e i boschi vicini. Nei suoi voli ancora inesperti e goffi Kiki incontra le meraviglie del cielo e le sue insidie, e sperimenterà come la vera magia sia tutta umana: non esiste sortilegio più forte della potenza dell'amore universale, quello che le restituirà la capacità di volare per salvare l'amico prossimo alla morte. La bellezza del film sta tutta nell'essenzialità del messaggio e nel genio visionario dell'autore, che riesce con indubbia abilità ad armonizzare toni intimisti e malinconici con momenti buffi e avventurosi.
Arianna Triolo
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