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Crescevamo assieme, io e i palazzi della metropoli
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Continua la nostra indagine sulla trasformazione dello spazio metropolitano, iniziata con la recensione de Il pianeta degli slum.
Il Fantasma che si aggira per il Giappone, partendo dall'analisi dei film di Tsukamoto, ci parla dello stretto legame fra la trasformazione della metropoli e la metamorfosi dell’organismo umano.
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Crescevamo assieme, io e i palazzi della metropoli.
_“Sono nato a Tokyo e sono cresciuto assieme ai palazzi della città. All’inizio, quando io ero piccolo, anche i palazzi erano piccoli. E mentre io crescevo anche loro crescevano. Crescevamo assieme, io e i palazzi della città”.
Queste sono parole di Shiniya Tsukamoto, regista di culto, autore fra i più celebrati della sua generazione, suoi fra gli altri, Tetsuo 1 e 2, Tokyo Fist, La leggenda del ragazzo del palo elettrico.
_Tsukamoto si riferisce ad un periodo della sua infanzia in cui a Tokyo, si potevano cominciare a vedere gli effetti spaziali della scelta operata a favore della partecipazione attiva della città a quella che oggi chiamiamo globalizzazione. La capitale nipponica intraprendeva la strada che l’avrebbe portata, dopo un periodo lungo vent’anni, a diventare una delle capitali del mondo. Il progetto lanciato dalla National Land Agency si chiamava - senza troppa fantasia e con scopo dichiarato - “Tokyo Secai Machi- World City Tokyo”. Vi erano tanti obiettivi da perseguire per permettere ai flussi dell’economia globale di aleggiare nello spazio pubblico giapponese e darvi nuova forma, uno di questi era: trovare 50 milioni di metri quadrati di spazi per uffici nel centro città, ovvero in quello che sarebbe diventato il Central Business District.
_Questo obiettivo sortì vari effetti, fra i quali:
1)Alcuni milioni di cittadini residenti nel centro città venivano invitati ad emigrare nelle zone di espansione esterne alla città.
2)Nel centro cominciavano ad impennarsi verso il cielo sia il prezzo dei terreni (i più cari del mondo) sia centinaia di grattacieli.
3)Il patriarca-sindaco di Tokyo, Shunichi Suzuki, in carica dal 1979 al 1995, preoccupato di quello che stava accadendo alla sua città, lanciava la campagna “My Town Tokyo”. E diceva che seppur il fatto di usare la parola “town” è sicuramente non preciso da un punto di vista relativo alle dimensioni dell’urbe in questione, di fatto descrive bene il proposito da perseguire nella costituzione di relazioni fisiche e sociali che permettessero un’intima relazione fra la metropoli e i suoi abitanti. È l’augurio che il sindaco fa ai suoi concittadini, sia a quelli che lo sono già che a quelli che lo diverranno. I suoi cittadini sono 12 milioni nelle zone centrali e 33 milioni in tutta l’area metropolitana: gente che da un certo momento in poi non ha più un luogo dove tornare perchè è Tokyo tutto quello che ha e da dove proviene.
_Ma torniamo alle parole di Tsukamoto: “Crescevamo assieme io e i palazzi!” Traspira una sensazione come di strana intimità (la stessa di cui parla il sindaco) fra il corpo proprio del regista e quello esteso della metropoli. La propria personale trasformazione - da bambino ad adolescente ad adulto - è posta in relazione direttamente proporzionale col cambiamento del paesaggio che lo circonda. È la storia di una città e dei suoi abitanti che passano da una dimensione - legata all’infanzia - in cui appartengono ancora alla scala nazionale - a quella matura - nella quale approdano ad una dimensione globale. Ma quanto viene a costare il tutto?
_Le storie narrate da Tsukamoto in Tetsuo 1 e 2 vedono come protagonista un colletto bianco, lavoratore nel terziario, tipico cittadino del progetto Tokyo Secai Machi, il quale fa esperienza della nuova compressione dello spazio, del tempo e delle relazioni sociali espresse dalla metropoli globale. Questo “essere invitati, ma anche doversi” riconoscere nell’architettura astratta ed inaccessibile rappresentata dai centri di potere della nuova città globale, l’insoddisfacente rete sociale della metropoli, il continuo passaggio obbligato negli spazi claustrofobici dei trasporti, l’offerta di spazi inaccessibili guardabili soltanto dall’esterno e varie altre concause, diventano un cocktail narcotico che gli va male in circolo. Il colletto bianco, infatti muta in un essere biomeccanico ed esprime tutto il suo malessere trasformando le sue paure e repressioni più viscerali in qualcosa di mostruoso.
_L’interpretazione offerta da Tsukamoto è sì aberrante, ma anche lucida nel riconoscere un legame fra la trasformazione dell’organismo umano e urbano. Entrambi indotti ad adattarsi alla nuova immagine che la città globale - grazie alle scelte dei suoi amministratori - ha scelto di perseguire. E così come la città diventa una mega infrastruttura di cemento, acciaio e spazi avulsi da qualsiasi relazione sociale, a sua volta anche il protagonista dei film di Tsukamoto - uno di quel 70% di colletti bianchi che aiuta a pompare energia nella macchina proliferante - Tokyo, si trasforma. E diviene -questo altrimenti normale impiegato - un’ infrastruttura di acciaio e carne, in cui la nuova dimensione sociale soffocante è il combustibile dell’ultra-violenza espressa dallo stesso impiegato protagonista del film.
_La percezione del sè viene, in qualche modo, intesa come connessa alla dimensione dello spazio pubblico. E per come pensata da Tsukamoto, l’interazione esistente fra corpo e spazio diviene effettiva: i palazzi diventano grandi perchè lui diventa grande. Tetsuo diviene un mostro perchè è la metropoli che è diventata un mostro. In defintiva, il riflesso dell’architettura della città globale si materializza nella dimensione personale dei suoi cittadini. Il finale del secondo Tetsuo è sereno e vede l’impiegato trovare finalmente pace: ma solo dopo che ha distrutto e raso al suolo Tokyo. Il suo corpo mutato in risposta alla trasformazione della metropoli, ritorna ad essere quieto solo dopo che la ragione avvelenata che lo ha indotto a mutare, cessa anch’essa di esistere.
_Quella di Tsukamoto è senza dubbio un’interpretazione che affascina: la tabula rasa è un concetto che ritorna in molta letteratura e cinematografia mondiale, e giapponese in particolare. La distruzione potrebbe essere sfogo liberatorio e la ricostruzione potrebbe rappresentare un invito a liberare la fantasia. Lo sradicamento potrebbe anche essere considerato come un fattore che potrebbe permettere un’altra vita da un’altra parte e così via. E sicuramente anche le metropoli sono una delle cose più belle e complesse prodotte dall’umanità. Queste città, delle quali parliamo in modo problematico e che abbiamo distrutto e ricostruito di continuo. E queste metropoli planetarie, espressione della dimensione ultima alla quale è fin adesso arrivata l’umanità, sono sotto molti aspetti terrificanti, ma strabilianti secondo tanti altri aspetti.
_Le metropoli, a mio parere, non sono buone o cattive di per loro, le città se sono, sono neutre, ovvero disposte a divenire. Le città non hanno di per sè un’etica, non sono degli esseri senzienti. Sta ad ognuno interpretarle ed usarle per come più desiderato. Consci che se le si vuole trasformare questo prende tempo, passione e fortuna e una vita soltanto non basta.
_Le riflessioni di Tsukamoto, per quanto visivamente terribili, hanno il potere terapeutico di regalare consapevolezza: la metropoli, ci dice, cresce con noi, si alimenta del nostro lavoro, dei nostri desideri, delle nostre paure. È meglio quindi avere belle paure e desideri splendidi: se da lei vogliamo il meglio è obbligatorio desiderare bene.
Fantom Favara --
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