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Tutti i Giovedì - ore 21.30


1) gio 16 nov- Deserto rosso (1964) di M. Antonioni;

2) gio 23 nov- Prima della rivoluzione (1964) di B. Bertolucci

3) gio 30 nov- I pugni in tasca (1965) di M. Bellocchio;

4) gio 7 dic- Teorema (1968) di P.P. Pasolini;

5) gio 14 dic- Dillinger è morto (1969) di M. Ferreri.


Ingresso 1 euro

"Identificazione di una classe"

"la borghesia più ignorante d'Europa", così la definì Pasolini, facendo rispondere a quel gigante di Welles nella Ricotta alla domanda di un disinteressato giornalista, "cosa ne pensa della società italiana?". Quella borghesia di cui lo stesso Pasolini analizzerà le fratture valoriali, la vuotezza di un mondo che all'affermazione dei valori consumistici non sa oppore altro che una devastante perdita di identità. La perdita di senso dei rapporti umani, anche di quelli più intimi, quelli familiari. La crisi della famiglia borghese, questo il tema su cui si concentra parte del 'nuovo cinema' italiano degli anni '60, gli anni del boom economico, della modernizzazione, della perdita dell'illusione neo-realista sulla società italiana.

Alessandro

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Da: Dillinger è morto


Regia: Marco Ferreri

(Italia, 1969) Durata: 95’

Sceneggiatura: Marco Ferreri, Sergio Bazzini
Fotografia: Mario Vulpiani
Scenografia: Nicola Tamburo
Musica: Teo Usuelli
Montaggio:Mirella Mencio
Interpreti: Michel Piccoli (Michel),
Anita Pallenber (la moglie),
Annie Girardot (Sabina, la cameriera),
Gigi Lavagetto (il collega),
Carole André (la ragazza della barca),
Adriano Aprà (presentatore).


Una camera riempita di un’aria mortale, irrespirabile, dove è possibile sopravvivere solo per mezzo di una maschera antigas: con questa metafora della condizione umana nell’era della società dei consumi prende avvio la claustrofobica narrazione di un quotidiano che si fa aberrante. Seguiamo un uomo senza nome, la cui sola identità sembra scaturire dagli oggetti che lo circondano, nelle poche stanze di un appartamento-tipo borghese dove ogni rapporto tra l’uomo e lo spazio è stravolto. Il corpo muto di Michel Piccoli si trasforma in un’appendice del mondo straripante di oggetti che lo sovrasta, senza che lo sguardo della macchina da presa ristabilisca delle gerarchie. I beni di consumo (i soprammobili, gli arnesi da cucina, la tv…), prodotti di una società alienata, sembrano guardare Michel (e noi con lui) restituendogli/ci l’immagine di una totale assenza gli uni con gli altri, dell’isolamento e dell’alienazione dell’uomo contemporaneo, condizione così bene descritta dal monologo del collega.
Nell’andare dall’uno all’altro degli elementi che compongono questo “sistema degli oggetti”, il corpo del protagonista sembra ormai privo di un reale moto pulsionale. Il percorso distratto del suo desiderio si posa con la stessa intenzionalità svuotata di senso su un libro di cucina, sui programmi alla tv, sulla pistola, sulla sensuale domestica, e sulle immagini in super8, surrogato del corpo della moglie che intanto giace in uno stato catatonico nella stanza da letto. Tuttavia il cibo e il sesso, spesso presenti nell’opera di Ferreri, non sono qui intesi come vie del godimento sfrenato, e tanto meno come soddisfazione di bisogni, ma quali strumenti per colmare il vuoto del tempo improduttivo, non più definibile come libero. Il bisogno di divertirsi ha perso ogni naturalità: la vacanza, simbolo del tempo liberato dal lavoro, è perfettamente inserita nel sistema di produzione-consumazione, e la sua riproduzione sulle pareti di casa ne consolida lo statuto di merce. Persino il cibo, ridotto ormai a valore di scambio, ha perso ogni odore e sapore e può assumere una inquietante familiarità con lo strumento della morte, anch’esso un oggetto tra gli altri.
Arianna Triolo

Da: TEOREMA


Regia: Pier Paolo Pasolini

Soggetto e sceneggiatura: P.P. Pasolini
Fotografia: G. Ruzzolini
Scenografia: L. Puccini
Montaggio: N. Baragli
Musica originale: E. Morricone
Paese: Italia
Anno: 1968
Durata: 116'
Interpreti:
Silvana Mangano
Terence Stamp
Massimo Girotti
Laura Betti
Ninetto Davoli

Per Teorema, presentato alla Mostra di Venezia nel 1968, piovvero su Pasolini critiche feroci sia da parte della sinistra, che sostenne che si trattava di un film reazionario, oltre ad accusare Pasolini di misticismo, sia dalla destra, che proclamò il suo disgusto per il modo in cui nel film si affrontava il tema della sessualità. La verità era che né la destra né la sinistra compresero allora, neppure marginalmente, gli intenti dell’autore: rappresentare la totale e irrimediabile perdita di identità della borghesia nel momento in cui essa si avvia – dopo essere entrata in contatto con un "Altro", del tutto estraneo alle certezze prefabbricate, indelebili e indistruttibili dalla "ragione dominante" – a una presa di coscienza che non può che svelare drammaticamente il "vuoto", l’impotenza, la "non esistenza” che costituiscono l'essenza stessa della borghesia.
L’Ospite che giunge nella villa della famiglia borghese, e che determina in ciascuno dei componenti di quella famiglia una crisi profonda, una totale perdita di identità, appunto, non ha qualità sovrumane, tanto meno rappresenta un’allegoria divina come qualche commentatore ha voluto intravvedere. È semplicemente il suo essere "Altro" rispetto alla logica borghese su cui si fonda il teorema dell’autoperpetuazione della borghesia stessa, che conduce alla perdita di identità tutti i membri della suddetta famiglia, e all’irrecuperabilile che ne consegue.
Secondo Pasolini, è proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia (o la totale assenza di ideologia) della società borghese capitalistica che consiste l’unica possibilità di una rivoluzione. Pasolini stesso presentò Teorema dicendo del suo film tra l'altro: “Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi.”

Angela Moltemi
da www.pasolini.net

Da: PUGNI IN TASCA


Regia: Marco Bellocchio

Sceneggiatura: Marco Bellocchio
Fotografia: Alberto Marrama
Scenografia: Rosa Scala
Costumi: Gisella Longo
Musica: Ennio Morricone
Montaggio: Aurelio Mangiarotti
Prodotto da: Enzo Doria
(Italia, 1965)
Durata: 107'

PERSONAGGI E INTERPRETI

Ale: Lou Castel
Giulia: Paola Pitagora
Augusto: Marino Masè
La madre: Liliana Gerace
Leone: Pierluigi Troglio


<< [...] piano piano, le ragioni commerciali [...] hanno fatto si' che il cinema prendesse una strada che in fondo e' contraddittoria con se' stessa e cioe' diventasse praticamente un cinema scritto nella lingua della prosa, diventasse un cinema della prosa. [...]

Qual' e' la differenza fondamentale tra questi due tipi di cinema, il cinema di prosa ed il cinema di poesia? Il cinema di prosa e' un cinema in cui lo stile ha un valore non primario, non appariscente, non clamoroso: mentre lo stile del cinema di poesia e' l'elemento centrale, fondamentale. [...] Nel cinema di prosa, non si sente la macchina da presa e non si sente il montaggio, cioe' non si sente la lingua, la lingua traspare sul contenuto e cio' che conta e' quello che viene narrato. Nel cinema di poesia invece si sente fortemente la macchina da presa, si sente fortemente il montaggio. Come esempio limite, vi faccio pensare ai film di Godard, in cui si sente continuamente la presenza della macchina da presa che lavora sui personaggi e si sentono continuamente gli strappi del montaggio che non sono mai una narrazione quieta, piana, tranquilla, ecc. Pensate per esempio anche al film di un altro giovane, Bertolucci, Prima della Rivoluzione.

Il film di Bellocchio a quali di questi due filoni appartiene? Il cinema di prosa o il cinema di poesia? Prevale il racconto, il contenuto, il personaggio, la psicologia, la rivolta anti-borghese o prevale lo stile? Direi che il film di Bellocchio appartiene al cinema di prosa. [...] E' una prosa molto particolare, e' una prosa che spesse volte sbava e sfuma quasi nella poesia [...]. La sua e' una prosa si', ma una prosa che sfuma continuamente verso esiti di espressione di tipo stilisticamente poetico, cioe' una prosa profondamente espressionistica [...] le situazioni umane, stilistiche, del film di Bellocchio non sono neorealistiche. Non si tratta nemmeno di un film che appartenga in qualche modo al realismo socialista, cioe' non e' nemmeno un film di denuncia sociale fatto da un punto di vista marxista e non e' nemmeno un film, per intenderci, fatto all'Antonioni, cioe' un film di problematica neo-capitalistica che si ponga contemplativamente i problemi del mondo piu' strettamente contemporaneo, del mondo degli anni sessanta.

Bellocchio e' al di fuori di questa formule. Il nocciolo del film di Bellocchio e' una specie di esaltazione della abnormita' contro la norma del vivere borghese, contro le istituzioni e contro il livello medio della vita borghese, familiare. E' una rabbiosa rivolta dall'interno del mondo borghese. >>

Pier Paolo Pasolini, 1965 - 1966,
da "Rinascita, Dialogo con Pasolini, Scritti 1957-1984"

Da: PRIMA DELLA RIVOLUZIONE


Regia: Bernardo Bertolucci

Soggetto e sceneggiatura:Gianni Amico e Bernardo Bertolucci
Fotografia: Aldo Scavarla
Scenografia: Vittorio Cafiero, Angelo Canevari,
Musica: Ennio Morricone, Gino Paoli
Montaggio: Roberto Perpignani
(Italia, 1964)
Durata: 110'
Prodotto da: Iride Cin. Ca
Personaggi e Interpreti:
Fabrizio: Francesco Barilli
Gina: Adriana Asti
Agostino: Allen Midgette
Cesare: Morando Morandini jr
Puck: Cecrope Barilli
Clelia: Maria Denis

"Gli uomini fanno la loro Storia in un ambiente che li condiziona".
Se ciò fosse vero cosa significa "essere fuori dalla Storia?"
Per Fabrizio, giovane borghese che vive gli anni prima del '68, essere nella Storia significa cambiamento, rifiuto dei dogmi borghesi, il rifiuto dell'evanescenza propria di quella classe che si muove compiaciuta nella cecità delle sue convenzioni. Fabrizio sogna un uomo nuovo, lontano dall'inconsistenza dei conformismi tediosi della modernità, delle banali e omologate traiettorie che scavano il vuoto. I grandi fermenti, le dirompenti passioni premono per un mondo diverso, il mondo muove al raggiungimento dei grandi ideali, il cambiamento è possibile, e spinge ad agire, ad agire la Storia. Le certezze del partito vanifica le angosce, il dolce vivere della consuetudine della fede borghese. E' una ricorsa spasmodica quella di Fabrizio, un voler essere dentro quel cambiamento, parte di quel mutamento con "lucidità ed esattezza", "l'ansia di essere Storia". Ma, prima la morte di un amico e poi l'incontro con Gina fanno vacillare le sue certezze. Gina è la donna di cui si innamora, l'unica a capire il suo tormento, la sua inquietudine, il suo disagio, una donna che sembra aver perso tutte le illusioni, una donna "fuori dalla storia" che raccoglie il "disordine" di Proust, forse unica via per liberarsi dalle catene del tempo che scorre, forse l'unica via per soggiogare la più grande delle paure: la morte. Quando Gina interrompe la loro relazione, Fabrizio perde le sue ultime illusioni, non bastano le ideologie a ricoprire il vuoto, e abbandona anche il partito accusandolo di non essere stato in grado di mantenere le promesse. Si vanifica l'idea di riscatto, di emancipazione e il presente si fa distante e nuovamente immutabile. Non ci sarà un uomo nuovo, c'è solo l'uomo "Perchè per uno come me è sempre prima della rivoluzione". E ritorna a "quella parte della città... quella dolcezza di vivere che io non voglio accettare."
Un giovanissimo Bertolucci ci racconta il disorientamento di una generazione. Attraverso le immagini di una Parma resa suggestiva dal bianco e nero di Aldo Scavarda e le musiche di Ennio Morricone, le canzoni di Gino Paoli, il Macbeth di Verdi, il film si snoda ad un ritmo poetico intagliato dalle innumerevoli citazioni (caratteristica inconfondibile dell'arte cinematografica di Betolucci) da Stendhal a Proust, a Wild, Pavese, Pasolini.

Da: DESERTO ROSSO


di Michelangelo Antonioni

Soggetto: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra

Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra

Fotografia: Carlo di Palma

Musica: Giovanni Fusco

Musica elettronica: Vittorio Gelmetti

Montaggio: Eraldo da Roma

Scenografia: Piero Poletto

Costumi: Gitt Magrini

Effetti: Franco Freda

Interpreti: Monica Vitti (Giuliana), Carlo Chionetti De Pra (Ugo), Richard Harris (Corrado), Valerio Baroleschi (il bambino), Ruggero Borghi, Beppe Conti, Giulio Cotignoli, Aldo Grotti Max, Giovanni Lolli, Hiram Mino Madonia, Giuliano Missirini, Emanuela Pala Carboni, Arturo Parmiani, Carla Ravasi, Rita Renoir, Lili Rheims, Ivo Scherpiani, Bruno Scipioni, Xenia Valderi

Produzione: Antonio Cervi per Film Duemila Cinematografica - Federiz (Roma); Franco Riz (Parigi)

Francia, Italia

Anno: 1964

Durata: 120'



La crisi di una donna, la sua incapacità di accettare una realtà della quale percepisce la natura terribile senza riuscire a capirla, l'incomunicabilità del suo essere riuscita ad afferrare il non-senso delle cose, il deserto di cui è fatta l'esistenza in un mondo disumanizzato dal progresso. La crisi di una famiglia, di una famiglia mai stata, di rapporti mai instaurati, di relazioni che quanto più 'naturali', tanto più si rivelano impossibili da gestire nel mondo fatto solo di oggetti, di appendici di realtà, di escrescenze liquamose e di vapori che la borghesia ha costruito attorno a sé. La crisi di una donna, la sua fragilità, diventa simbolo della fragilità di una società che di fronte ai cambiamenti di una modernizzazione forzata oppone la perdita di identità alla affermazione dei vuoti valori di consumo.
Primo film di Antonioni in cui compare il colore, un colore pastello che a tinte vivide descrive una ir-realtà emozionale alienante, un colore che accompagna la protagonista fino alla superficie delle cose e lì la fa indugiare a guardarsi dal di fuori. Da un fuori ormai diverso dalla paleo-realtà descritta dal neorealismo, da quel paesaggio contadino mal urbanizzato, fatto di povertà e sentimenti. Un fuori in cui la natura ha perso tutti i suoi colori, rimasti impigliati all'interno delle case, sugli oggetti, sui prodotti delle fabbriche di quella borghesia su cui l'occhio del 'nuovo cinema' italiano si scopre a sbirciare le fratture più intime.

Alessandro Scibetta

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