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Una settimana a Malta
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Sono tornata da Malta da pochi giorni. Vi ho trascorso una settimana per portare avanti un’inchiesta sulle zone di detenzione e concentramento dei migranti e sulle politiche migratorie di questa isola-Stato. Il mio lavoro è stato quasi contemporaneo a quello della Commissione Diritti Civili, Giustizia e Affari Interni del Parlamento Europeo che ha mandato una delegazione a Malta a visitare i “detention centres”, e a quello di alcuni giornalisti di vari paesi che finalmente hanno ottenuto il permesso di entrare all’interno di queste galere etniche.
--Tanto i toni del rapporto firmato dalla delegazione ufficiale quanto quelli usati dai giornalisti internazionali sono stati di aperta condanna alle pratiche maltesi e, direi quasi, di indignazione.
Ed effettivamente, come non indignarsi di fronte a tanta disumanità e a un tale spregio dei diritti fondamentali di uomini, donne e bambini? Come non dichiararsi offesi dal fatto che cose del genere avvengano in un paese europeo cosiddetto civile e democratico?
Eppure, questo fiume di parole scritte e pronunciate su Malta mi fa nascere dentro, più che altro, un forte senso di disagio. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto conclusivo della delegazione Ue, le cui parole e raccomandazioni mi sembrano celare, a ben pensarci, una grande ipocrisia.
In questo rapporto è consigliato caldamente al governo maltese di diminuire il periodo dei 18 mesi di trattenimento (questo è il limite massimo di detenzione amministrativa applicabile a Malta). Vi si legge anche che, come è scritto nell’Art. 31 della Conv. Di Ginevra, i richiedenti asilo non dovrebbero venire trattenuti ma aspettare liberi che il loro status venga definito. È detto inoltre come le condizioni dei centri siano inaccettabili e vergognose perché inumane e degradanti. Tutti i membri della delegazione, dai Ds a Forza Italia che erano presenti, si sono dichiarati “sconvolti” di fronte a quello che hanno visto e critici rispetto allo stato e alla gestione militare di quelli che, alcuni di loro sono persino (e direi finalmente) riusciti a chiamare “lager”.
Tutto questo ci fa piacere, è ovvio, ma mi sembra che non basti.
Mentre ero a Malta, non mi è stato ovviamente permesso di entrare dentro nessuna di queste galere. Le ho guardate da fuori, le ho filmate dall’esterno, nascosta tra la vegetazione o dietro i muretti per non farmi scoprire dai militari. Ma ho visto le grate e il filo spinato di Safi Barracks e la tendopoli circondata dai soldati di Lister Barracks, ad Hal Far. Anche io mi sono sentita “sconvolta” come i delegati europei dopo la loro visita. Ciononostante sento che non ha molto senso fermarsi alla condanna di questo aspetto che, per quanto terribile e inaccettabile, è solo la superficie di una questione con radici e significati molto più profondi.
Entrata da poco nell’Ue, membro del Commonwealth, parte di Schengen, Malta è un’isoletta gettata in mezzo al Mediterraneo. 316 km quadrati, 400000 abitanti.. E allora fanno giustamente ancora più impressione i suoi quattro centri di “detenzione amministrativa”, due gestiti dalla polizia, due direttamente dall’esercito: ogni 400 abitanti, quindi, c’è un migrante recluso a Malta, di contro a un rapporto italiano di uno a diecimila circa. Una legge, risalente al 1970 prevede infatti la detenzione per tutti coloro i quali fanno ingresso non legale sul territorio. Richiedenti asilo compresi. Famiglie comprese. Bambini compresi.
Dal 2002 questa legge viene realmente applicata, perché si passa da 24 arrivi in media l’anno, fino al 2000, a quasi 1700 due anni dopo. È risaputo che nessuno dei migranti approdati a Malta avrebbe mai voluto arrivare sull’isola. È sempre un errore, tutti si trovano lì per sbaglio. La corrente, il mare troppo agitato, la benzina che finisce e l’Italia, l’Europa vera che diventa solo un sogno e lo resta perché dall’isola non si può più andare via.
E allora viene da chiedersi: cosa sta succedendo veramente a Malta negli ultimi anni?
Per capirlo ho intervistato migranti, politici locali e impiegati pubblici, gesuiti e letterati, e molte cose mi hanno stupito. È stata una sorpresa, ad esempio, scoprire che lì più del 50% delle persone che richiedono asilo politico non ricevono un diniego, ma hanno almeno accordata la protezione umanitaria e che, dato non troppo difficile da decifrare, nessuno o quasi al momento attuale viene espulso dall’isola (non ci sono i soldi per i rimpatri). Tutti hanno un documento di freedom of movement che quantomeno impedisce che, una volta usciti dalla detenzione, possano venire incarcerati nuovamente Ed è stato ancora più stupefacente accorgersi che a Malta, esistono moltissimi reali centri di accoglienza aperti, alcuni praticamente del tutto autogestiti dai migranti, come quello di Marsa, a dieci minuti in autobus dalla Valletta, dove ho trovato perfino cinema e caffetterie.
E allora, pur non avendo la minima intenzione di “sfumare” le responsabilità di questa piccola isola-Stato, i cui cittadini pensano ancora di essere ai tempi dei cavalieri di San Giovanni e di dovere difendere la roccaforte della pura cristianità europea, mi chiedo dove stia la colpa originaria, e quali siano le reali cause della nascita di questo “mostro bifronte”, di questo ibrido che coniuga durissime ed inaccettabili condizioni di reclusione e discriminazione con delle garanzie di accoglienza e concessione di statuti giuridici “regolari” che nessuno altro paese europeo riserva più per i migranti.
Malta non è Lampedusa, che fa parte dell’Italia, che ha uno Stato a cui fare riferimento: Malta è uno Stato. Non è neppure il Marocco o la Libia , con cui l’Ue fa accordi economici usando come moneta di scambio i corpi vivi dei migranti: Malta è parte dell’Ue. E per questo, tutti quelli cui concede protezione umanitaria sono costretti a rimanere lì, passando dalla prigione dei centri di detenzione a quella un pochino più grande di tutta l’isola. Chi prova a partire e viene rintracciato in altri paesi europei, grazie al sistema informatico di Schengen e all’applicazione della Convenzione di Dublino II viene immediatamente ricondotto sull’isola. Per questo il governo maltese ha appena appoggiato la proposta di deroga a tale Convenzione e ha sollecitato altri Stati europei ad accogliere i rifugiati riconosciuti a Malta.
Capire Malta, vuol dire allora, per forza di cose, inserirla in un contesto europeo di gestione dei flussi migratori, che in Stati più “esperti” è già diventato un affinato sistema di controllo della mobilità e di filtro dei migranti a seconda delle esigenze economiche, e che su questa piccola isola appare invece ancora affidato all’improvvisazione.
Per questo provo disagio e rabbia di fronte al fatto che nessuno dei politici che hanno fortemente criticato le condizioni dei “lager” maltesi, si è posto minimamente il problema di rimettere in discussione in un documento ufficiale la sostanza della detenzione amministrativa applicata regolarmente in tutti i paesi dell’Ue. Per questo mi sembra ipocrita parlare di Malta senza metterla a confronto con Lampedusa o con i paesi del Nord Africa, senza dire che in Italia, ad esempio, concediamo protezione umanitaria o asilo politico a meno del 10% di coloro i quali ne fanno richiesta, e che i nostri migranti, per quanto soggetti a una detenzione amministrativa più breve (“solo” 60 giorni per volta) fanno spesso dei macrabi tour dei Cpt di mezzo paese entrando e uscendo da queste carceri, in tutto paragonabili a quelle maltesi, secondo ritmi spesso scanditi dalle necessità del mercato del lavoro a nero. È vero che a Malta ha ancora vita il Ku Klux Klan, che i migranti sono minacciati di morte con dei volantini firmati kkk, che nell’ultimo mese sono state incendiate la casa di un poeta che scrive di pace e solidarietà tra i popoli e 7 macchine dei gesuiti (che sembrano essere l’equivalente dei nostri più attivi militanti antirazzisti) perché si permettono di dare assistenza ai migranti e denunciare il razzismo dei loro compatrioti. A tal proposito invito tutti a farsi un giro sul sito www.vivamalta.org, dove i fuori di testa di Imperium Europa scrivono ogni giorno i loro deliri neonazisti.
Ma cosa ha realmente determinato questa situazione tanto esplosiva e cosa dobbiamo realmente augurarci per il futuro di questa isola e dei suoi migranti?
Credo che Malta si trovi in questo momento a un bivio importante. Se avesse energie e consapevolezza e abitanti animati da uno spirito critico diverso, potrebbe realmente presentarsi come la falla del sistema, come il luogo in cui Schengen e Dublino rivelano finalmente la loro assurda inadeguatezza e la loro immensa ingiustizia di fondo. Potrebbe essere il punto di crisi delle politiche europee sull’immigrazione e sull’asilo, potrebbe esplodere dimostrando al mondo che alcune scelte nefaste portano solo a distruzione e morte, forse a un vero pogrom nel cuore del Mediterraneo, la cui drammaticità aprirebbe gli occhi e le coscienze di molti. Ma no, ovviamente, non è questo che bisogna augurarsi. Meglio augurarsi, insieme ai delegati Ue, che Malta si “europeizzi”, che i lager vengano ripuliti almeno un pochino, almeno di facciata, che la detenzione divenga più breve e pertanto giustificabile e, di contro, che i programmi di rimpatrio congiunto vengano implementati anche lì e che, di conseguenza, il tasso dei permessi concessi per protezione umanitaria o asilo politico tocchi i livelli minimi degli altri paesi europei, rendendo tutti i migranti espellibili in ogni momento.
Auguriamoci questo, quindi, che Malta passi dall’orrore dei Lager così ben descritti da Hannah Arendt e da Agamben, deposito di una “umanità in eccesso” che va collocata da qualche parte, alla capacità di utilizzare a pieno i nuovi dispositivi di controllo della mobilità capaci invece, in qualche modo, di mettere a valore la vita dei migranti e le energie della loro mobilità inarrestabile. Auguriamoci che Malta entri davvero e a pieno titolo nella grande famiglia europea, e che smetta di crearci imbarazzo, imparando da essa le ipocrisie e i camuffamenti quando si tratta di descrivere la detenzione come accoglienza e le barbarie come civiltà e umanitarismo. --
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