Siamo stati invitati da Lavoro e Società (area programmatica della CGIL), ad un incontro sul pacchetto di riforme su previdenza e mercato del lavoro, che si terrà giovedì prossimo (18 ottobre alle 16.30) nel salone della CGIL di via Bernabei.
A questo incontro sono stati chiamati ad intervenire, oltre noi e Toni Pellicane del Comitato di Lotta per la Casa, anche i segretari dei partiti della cosiddetta “sinistra radicale”. Ci sembra allora un'occasione per proporre, in modo più allargato, alcune considerazione sulla fase politica che stiamo attraversando in Italia. Partendo dalla semplice considerazione che l'incontro di giovedì cade ad un mese dalle mobilitazioni “antipolitiche”di Grillo, a 10 giorni dal referendum dei lavori sulle riforme, a 4 dalle primarie del Partito Democratico e 2 giorni prima della manifestazione del 20 ottobre di Roma promossa da una serie di firme, tra le quali quelle dei direttori di Liberazione, il Manifesto e Carta. Manifestazione alla quale, lo diciamo subito, noi non andremo. Partiamo dal tema dell' “anti-politica”, di cui cogliamo tutta l'ambivalenza. Tema che ha monopolizzato il dibattito pubblico in seguito alle invettive di Grillo e alla pubblicazione del libro di Stella e Rizzo “La Casta” sui costi della politica. Se da un lato condividiamo la bontà di alcune proposte di Grillo, soprattutto in campo ambientalista, dall'altro ci sembra uno degli effetti collaterali della scomparsa di Berlusconi come protagonista assoluto della scena politica: venuto meno il capro espiatorio fonte di ogni male, allora parte l'attacco a tutto il ceto politico nazionale. Lungi da noi voler difendere i privilegi della “casta” o sottolineare la netta differenza tra centro-destra e centro-sinistra, che, anzi, noi stessi abbiamo difficoltà a cogliere, piuttosto ci sembra che lo stesso grillismo abbia forti punti di analogia con la “Politica” che attacca: il “paradigma legalista”, che mette in un unico calderone capi cosca e lavavetri, tangentisti e occupanti di centri sociali, è identico a quello sbandierato dai pacchetti sicurezza di destra e sinistra, che non fanno altro che inasprire le misure repressive sugli “ultimi” e garantire la sicurezza e i privilegi dei “primi”. Siamo arrivati al punto che il problema non è più la “povertà”, ma il “povero”. Ed in cosa il grillismo si differenzia dalla fiducia tele-messianica nell'avvento dell'”uomo nuovo” promesso a destra e a manca dalla “casta”? E' davvero di un “Salvatore” che abbiamo bisogno? A destra l'hanno trovato quindici anni fa, dall'altra parte (non sappiamo più come chiamarla) a quanto pare la settimana scorsa. Ma qual'è la forma di partecipazione che si propone? Quella del passaggio da spettatori ad utenti? Dalla politica del telecomando a quella del mouse? La critica che da più parti arriva al Partito Democratico è quella di nascere con un vuoto di programma, di essere un partito nato più su dei nomi, che su un progetto. Questa ci sembra però, più che la peculiarità del PD, la forma propria dell'attuale forma di governance: perso il ruolo storico di mediazione dei processi sociali ed economici, il compito dei governi è diventato quello di governare l'emergenza attraverso la sospensione del diritto. Ci sembra che la questione centrale sia la perdita (soprattutto nel centro-sinistra) di qualsiasi referente sociale. Non c'è più una letture di classe, una capacità di cogliere i conflitti interni alla società. Le uniche preoccupazioni sono la composizione del governo e l'accontentare la confindustria, il parente americano e quello in Vaticano. Perso ogni referente nella realtà, la politica si rifugia in una realtà parallela, autoreferenziale, una second-life in cui ridisegnarsi “governanti” e mettere sotto il mousepad le ingiustizie ed i disastri provocati. Non si riesce a dare nessuna interpretazione delle forma che il conflitto capitale-lavoro ha assunto nell'epoca post-fordista. Non si riesce a cogliere il ruolo “produttivo” delle nuove figure del lavoro. Tutti i tentativi, grotteschi, di regolamentare il mercato del lavoro flessibile negli ultimi quindici anni, sono stati volti a smantellare quei residui di diritti dei lavoratori conquistati nei decenni precedenti. Su cosa nasce quindi il Partito Democratico, se non sulla cancellazione dei diritti agita nascondendosi dietro lo spauracchio della sicurezza? Cos'è sennò tutta la retorica veltroniana dello scontro tra generazioni? Ci vorrebbero far credere che il problema del giovane precario è quello di avere dei genitori che si sono potuti comprare la casa e che, versando decenni di contributi, sono arrivati alla pensione. Non che lui, non solo non arriverà mai alla pensione e non si potrà mai comprare una casa, ma, in più, probabilmente non avrà mai una certezza di un futuro superiore ai tre anni. Ci vorrebbero far credere, anche, che il nostro problema di sicurezza è dovuto alla presenza degli immigrati. Noi però sappiamo bene che la nostra insicurezza è dovuta all’azzeramento sistematico dei diritti sociali negli ultimi trenta anni! E' chiaro che in questo contesto anche il sindacato rischia di veder scomparire il suo ruolo. Non solo perché rischia di perdere la propria autonomia, come in occasione della firma del protocollo in cui la CGIL ha dovuto decidere non sulla difesa dei lavoratori, ma sulla difesa del governo Prodi. Ma soprattutto perché è una forma definitivamente inadeguata a rappresentare la composizione molteplice del lavoro odierno. Basti pensare che a votare al referendum sul lavoro, e quindi sulla legislazione che andrà a regolare le nuove forme del lavoro, sono stati per lo più i pensionati e gli statali. Ma che voce abbiamo avuto noi precari sul nostro destino? Chi ha deciso al posto nostro? In questo contesto, non possiamo non cogliere l’importanza della spaccatura della FIOM (come di altre componenti interne alla CGIL) e il voto negativo nelle grandi fabbriche. Anche se non sappiamo se interpretarlo come il segnale di una nuova resistenza operaia, che apre la strada all'emergere di una nuova soggettività in grado di opporsi al dilagare del liberismo, o come il riemergere orgoglioso di un fantasma del passato che testimonia la sua ostinata sopravvivenza. Forse ambedue, forse nessuna delle due. Rifondazione Comunista, durante la campagna elettorale di due anni fa, usava uno slogan che recitava: “vuoi vedere che stavolta l'Italia cambia davvero?” Abbiamo aspettato, ci abbiamo sperato, ma no, l'Italia davvero non è cambiata... La precarietà continua ad umiliare le nostre esistenze. I cpt continuano a rinchiudere i nostri fratelli. La guerra continua ad uccidere sull'altra sponda del mediterraneo. Ci sforziamo di guardare anche in altre direzioni: la scuola, l'ambiente, i diritti di convivenza. E anche li siamo costretti a dire che no, l'Italia non è cambiata. Senza accusare nessuno di tradimento o di collaborazionismo, ma cosa dovremmo andarci a fare noi a Roma il 20 Ottobre? Dovremmo andare a tifare per quelli che ci continuano a dire che loro sono i buoni, ma la colpa è delle cattive compagnie e anche un po’ di questa strana pretesa di autonomia dei movimenti che si ostinano a non volerli come “capi”? La verità è che questo anno e mezzo di governo Prodi ha aumentato la distanza tra i movimenti e quei partiti che per anni avevano condiviso le stesse lotte. La stessa distanza che è aumentata tra il governo ed il mondo. Distanza materializzatasi il 9 giugno a Roma quando accanto ad una manifestazione contro Bush di centomila persone, i partiti della sinistra di governo si sono ritrovati in piazza da soli. La manifestazione del 20 ottobre sembra allora, al di là dell'intenzione dei quindici promotori, la risposta mal riuscita della cosa rossa alla costituzione del PD. Sembra un altro gioco autoreferenziale, un'altra mossa interna al governo, ma che poco ha a che fare con il mondo. E' da almeno tre anni che nei vari dibattiti sul futuro della sinistra di governo tutti dicevano che bisognava uscire dall'essere ceto politico, che bisognava immergersi nella società, che tutto andava bene tranne la somma di PDCI, RC, Verdi e sinistra DS. E alla fine cosa hanno fatto? La somma di PDCI, RC, Verdi e Sinistra Democratica. Con tutti gli sforzi, è difficile leggere questa operazione come l'emergere di una nuova soggettività politica e non come l'ennesimo segno dell'autonomia della “Politica” dal mondo: una “second life” un po' scassata e con degli avatar più tristi e sfigati. Che ci resta da fare? E cosa resta di quel paradigma politico che abbiamo costruito negli ultimi dieci anni? Quel paradigma in grado di collegare una critica globale alla spietatezza del capitalismo con una pratica locale di resistenza. Quel paradigma che vedeva nella messa in gioco dei propri corpi e delle proprie esistenze la pratica di una nuova forma di partecipazione. Quel paradigma che annullava la distanza tra strumenti e obiettivi, tra mezzi e fini, tra democrazia rivendicata e democrazia agita. Se guardiamo in alto, alle scelte dei governanti, alla chiusura e all'autoreferenzialità del discorso politico, tutto sembra perduto. Se poi abbassiamo lo sguardo e proviamo a guardare cosa avviene nei territori, se proviamo a vedere quello che abbiamo continuato a fare, no, non sembra tutto perduto. E non ci riferiamo soltanto a quelle straordinarie esperienza di resistenza messe in atto a Vicenza e in Val di Susa, ma a come, anche a Palermo, certi percorsi siano continuati: dalle lotte per i beni comuni al Comitato di Lotta per la Casa, dall'esperienze di solidarietà con i migranti al lavoro nelle periferie, fino alla resistenza, il radicamento e la crescita di quelli che Naomi Klein definisce i “gioielli italiani”: i centri sociali. E allora tutto bene? No. Ma la partita non è mai finita e la strada da fare è lunga ed in salita, soprattutto dal punto di vista cognitivo. Ci sembra infatti che da nessuna parte emergano ricette esaustive (tanto meno dalla nostra) e che la difficoltà consista proprio nella comprensione delle trasformazioni in atto. Lo sciopero sociale del 9 novembre, promosso dal sindacalismo di base, da alcuni centri sociali e da altre aree di movimento, può essere l’occasione per riprendere un percorso. A condizione che non si rifugga a nostra volta nelle nostre certezze rassicuranti e che non si metta in atto un’altra autorappresentazione anch’essa distante dal mondo. A condizione, cioè, che ci si faccia carico di tutta l’enigmaticità della fase e che ci si spinga oltre, per cogliere l’intreccio dinamico che oggi tessono metropoli, lavoro e conoscenza. ZetaLab |