La lettura del nuovo libro di Mike Davis offre un'occasione importante per riflettere su come processi globali siano riscontrabili anche a Palermo.
-- Nei prossimi anni la popolazione mondiale che abita nelle città supererà quella che vive nelle campagne. Dagli anni '70 il processo di “urbanizzazione del pianeta” ha infatti visto una sconvolgente accelerazione. Oggi in tutto il mondo ci sono quattrocento città che superano il milione di abitanti (contro le ottantasei del 1950), di cui ventisei superano gli otto milioni (nel 1950 solo New York), con casi estremi di cinque megalopoli che superano i venti milioni di abitanti (Tokyo, Città del Messico, New York, Seoul-Injon, San Paolo). E' da questi dati che muove i passi Il pianeta degli slum (Feltrinelli, 2006. Pag 216 – 15 euro), nuovo libro di Mike Davis , geografo e sociologo famoso per i suoi studi sulla deriva delle metropoli iniziati con Città di quarzo (Feltrinelli, 1991) e Geografia dalla paura (Feltrinelli, 1999). Qui Davis focalizza l'attenzione su quella varietà di soluzioni abitative di fortuna sperimentate al centro e ai margini delle metropoli, che va sotto il nome di “slum”. L'Onu nel 2002 dava una definizione di slum come “luogo caratterizzato da sovraffollamento, strutture abitative scadenti o informali, accesso inadeguato all'acqua sicura e ai sevizi igienici, scarsa sicurezza del possesso”. Sempre l'Onu indicava la cifra scioccante di un miliardo di abitanti negli slum nel 2005. Il pianeta degli slum è una ricerca incredibilmente articolata, è un viaggio che tocca ogni angolo del mondo: dalle favelas di San Paolo alla Città dei Morti del Cairo, in cui un milione di poveri utilizza le antiche tombe degli emiri come prefabbricati. Dagli homeless di Los Angeles ai campi profughi di Khartoum e Gaza, dai ghetti urbani di Kingstom e Bombay ai megaslum, da due milioni di abitanti, di Città del Messico, Caracas e Bogotà. Fino ad arrivare alle realtà incredibili di Etiopia, Ciad e Afghanistan in cui il 99% della popolazione urbana vive in degli slum, creando delle bombe ad orologeria per quanto riguarda emergenze sanitarie ed esposizione a calamità naturali (inondazioni, terremoti, frane). Il lavoro di Davis stupisce per la mole di dati riportati, in grado di dare conto della specificità e delle ragioni storiche di ogni situazione regionale, ma soprattutto capace di descrive i tratti di un processo globale: l'esclusione dallo spazio urbano rappresenta l'esclusione dai circuiti economici ufficiali, la distanza tra la periferia e la città sembra incolmabile e nulla di ciò che viene prodotto nella City arriva negli Slum, se non gli scarti, la spazzatura. Le origini di questo processo vengono indicate nel brusco passaggio dalle politiche coloniali della prima metà del secolo all'attuale economia globalizzata. E' avvenuto nelle grandi città un passaggio da una crescita demografica lenta, causata delle politiche coloniali di blocco delle migrazioni dalle campagne, all'esodo verso la città delle masse contadine avvenuto nella seconda metà del secolo in seguito al crollo del settore agricolo determinato dall'imposizione delle strategie neoliberiste del FMI. A tutto ciò si deve aggiungere sia il ruolo inadeguato delle politiche statuali, di cui hanno beneficiato più le classi medie che i ceti poveri, sia il fallimento delle strategie congiunte della Banca Mondiale con le Ong, “utili più a conferire prestigio internazionale ai loro autori, che a produrre risultati apprezzabili”. Per completare l'opera, i Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS) del Fondo Monetario Internazionale hanno imposto, a buona parte dei paesi del sud del mondo, la privatizzazione dell'acqua e della sanità come strategia di uscita dal debito, causando vere e proprie catastrofi umane. D'altra parte queste politiche non sono passate sotto silenzio e sicuramente non hanno ricevuto il plauso delle popolazioni destinatarie: tra il 1976 e il 1992 ci sono stati ben centoqurantasei rivolte anti-FMI in trentanove paesi debitori africani! La divisione spaziale rappresenta solo il tratto più visibile delle diseguaglianze economiche e sociali. Basti pensare che sono frequenti le città in cui il settanta per cento della popolazione è confinato nel venti per cento del territorio urbano. Il processo che ha portato a questa divisione è fatto di sgomberi di interi quartieri (vengono citati almeno dieci megasgomberi di più di 100.000 persone), spesso effettuati in occasione del riammodernamento delle città in prossimità di Olimpiadi o di altri importanti eventi internazionali. Sempre guidati da una vera e propria “politica della paura”, che servendosi della retorica della sicurezza e della repressione della criminalità, ha portato verso l'estinzione della città come spazio politico. Se da un lato, infatti, avviene l'esclusione dei poveri in quanto ostacolo al progresso, dall'altro anche i ceti alti abbandonano la città. La moderna “architettura della paura” ha dato vita alle edge city, le zone esclusive a protezione totale costruite con l'ossessione della sicurezza e dell'isolamento sociale. Veri e propri simulacri dei distretti esclusivi americani già nel nome: c'è una Beverly Hills al Cairo, una Orange County a Pechino e una Palm Spring a Hong Kong. Metropoli organizzate in modo che i punti di contatto tra gli slum e le edge city si riducano allo zero dal punto di vista economico, culturale e politico. L'esclusione dallo spazio fisico della città rappresenta l'impossibilità di accedere ai beni, ai saperi, alle risorse, alle reti. Non è un caso che i dati sull'economia informale coincidano (anche se non si sovrappongono in toto) con quelli sulla popolazione degli slum. E' lo spazio prodotto della ricetta ultraliberista, quello in cui la crescita della ricchezza di un paese va di pari passo con l'aumento delle masse di povertà (vedi la Russia o l'India). In cui l'abitazione, come il lavoro, l'acqua o la salute escono dalla sfera dei diritti e della regolamentazione politica per scomparire nello spazio invisibile dell'esclusione e della lotta per la sopravvivenza. Mike Davis segue un metodo che va dal particolare al globale per poi tornare al particolare (da cui emerge la sua formazione marxista). Inizia la sua analisi dalla rilevazione particolareggiata dei singoli contesti geografici e, attraverso la raccolta di una quantità enorme di dati storici e statistici, arriva a descrivere uno schema globale, una tendenza planetaria. Il passo conclusivo è quello di andare a rileggere, guidati da un'ipotesi generale, le singole realtà. La suggestione immediata che deriva dalla lettura de Il pianeta degli slum è quindi quella di provare a individuare tracce di questo schema globale nella propria realtà specifica. Operazione che per chi vive a Palermo non risulta difficile. L'unica città italiana che viene presa in considerazione nel testo è Napoli, che addirittura viene considerata anticipatrice del fenomeno mondiale, per come, già nel risorgimento presentasse una “manodopera cronicamente sovrabbondante che sopravviveva grazie ai miracoli dell'improvvisazione economica”. Ma anche se nel libro Davis non nomina mai Palermo*, la sua analisi è quanto mai utile per osservare le sue trasformazioni. Tutti gli elementi descritti nel libro sono immediatamente riscontrabili: migrazione dalla campagna verso la città, separazione degli spazi urbani in base ai ceti di appartenenza, quote elevate di esclusione sociale, alta presenza di economia informale, privatizzazione delle risorse (acqua e sanità). E' difficile, ad esempio, non pensare immediatamente allo Zen quando, all'interno della tipologia di slum proposta da Davis, si legge la definizione di Lrcs (lottizzazioni residenziali commerciali substandard): “configurazione territoriale pianificata, bassi livelli di servizi, ubicazione suburbana, alta sicurezza di possesso, non conformità ai piani regolatori urbani e abitazioni fai da te (...) Anche se le case in sé sono quasi sempre prive dell'autorizzazione ufficiale dell'autorità locali, le lottizzazioni pirata sono in generale divise in lotti uniformi con griglie stradali convenzionali; i servizi però sono rudimentali o inesistenti, e il prezzo di vendita si basa sulla capacità dei residenti di contrabbandare o negoziare le loro migliorie infrastrutturali”. Pensiamo anche all'incredibile estensione dell'economia informale. Praticamente tutti i nomi dei quartieri di Palermo vengono associati all'emergenza sociale. Su cosa si basa la sopravvivenza in periferia alla Marinella, a Falsomiele, alla Guadagna o al centro storico alla Vucciria, all'Albergheria e alla Kalsa? Cosa rappresenta quella massa straordinaria di posteggiatori, riffatori, spacciatori, ambulanti e lavoratori in nero di ogni tipo, se non il segno più evidente della separazione tra economia ufficiale e circuiti di sopravvivenza? E' cosa nota che tutti gli abitanti dei “quartieri” quando escono dalla propria zona usano l'espressione “andiamo a Palermo”. Il paradosso è che questa espressione viene utilizzata anche da chi vive al centro storico. Perché uno dei prodotti della segmentazione della città è stato il riemergere di bisogni identitari forti. Di trovare rifugio nel clan, nel gruppo da stadio, nella famiglia, nel vicolo. L'esigenza di stare tra uguali e recuperare tutta la durezza possibile per difendersi dall'invasione. Ma anche perché Palermo non viene percepita come propria. Palermo è di via Libertà. Palermo appartiene al ceto democristiano e mafioso di destra e di sinistra. Per un ragazzo dello Zen Palermo è dei liceali. La città è ciò che li esclude, che li chiama Gargi, Tasci, Zaurdi. Che li fa sentire inadeguati. La città non solo li emargina, ma in più li rimprovera di non avere avuto accesso a quei beni da cui sono stati esclusi. E li rimprovera anche di rendersi visibili, di non starsene chiusi nei propri slum. E cosa succederà nei prossimi cinquant'anni? Quando sarà completata l'operazione di “ripulitura” del centro storico e verranno sbattuti in periferia insieme ai ceti poveri tradizionali, anche i nuovi poveri? Quando le comunità maghrebine, asiatiche e centro africane verranno escluse a loro volta dallo spazio urbano e mandate a riempire le già affollate strade dello Zen? Lo scenario è tanto apocalittico quanto facilmente prevedibile. E così questo sguardo veloce su Palermo ci fa tornare alla dimensione globale facendo emergere tre elementi che rappresentano la vera novità della nostra epoca: Il primo è che le categorie utilizzate per descrivere la distribuzione geografica della ricchezza non sono più utilizzabili. Non solo, dalla caduta del muro di Berlino, non è più valida la divisione in Ovest, Est e terzo mondo, ma anche lo schema che contrappone il sud povero al nord ricco appare troppo schematico. A Palermo come nel resto del mondo, ricchezza miliardaria e povertà estrema condividono lo stesso spazio della megalopoli. Separati sì, ma in casa. A volte da un muro, da un chek-point o, in modo più soft, dalla strada a scorrimento veloce che circonda tutto lo Zen. In ogni parte del pianeta ci sono grandi ricchezze concentrate in poche mani che stanno accanto a grandi masse di povertà. La seconda novità sta nel fatto che l'esclusione dal lavoro non viene considerata più un'eccezione, i lavoratori informali non sono più “l'esercito industriale di riserva” in attesa di essere inserito nella struttura produttiva, ma la normalità. L'esclusione è per la prima volta considerata inevitabile. Non esiste alcun piano di riassorbimento, a Palermo come nel resto del mondo. Nessuna superpotenza ha, nemmeno sulla carta, strategie di lotta alla povertà e di reinserimento di questa umanità in surplus. E si sa, quando la politica esprime i suoi limiti, la guerra persegue con altri mezzi gli stessi obbiettivi. Non solo i più recenti atti di guerra si sono svolti all'interno dello spazio urbano (Panama, Belgrado, Beirut, Bagdad, New York!), ma anche l'amministrazione delle città diventa oggetto di strategie militari: Los Angeles, Seattle, Genova, Oaxaca, ma anche le banlieue di Parigi e via Anelli a Padova. Così le uniche ipotesi di amministrazione dei sobborghi delle metropoli vengono formulate da ambienti militari, i quali vedono gli slum come pericolosi covi per ogni tipo di categoria deviante e criminale: “la dottrina del Pentagono viene riformulata in termini di guerra di bassa intensità di durata illimitata contro segmenti criminalizzati dei poveri urbani”. Si passa, con un brillante artificio grammaticale, dalla guerra alla povertà alla guerra ai poveri. La terza questione, quella con cui Mike Davis, lasciandola aperta, conclude il libro, è quella dell'”agente storico”. Cosa emerge una volta superati i luoghi separati del conflitto? Quando la fabbrica diventa la città intera, e la città lo spazio totale, quando lo sfruttamento non è più concentrato in un luogo specifico ma è esteso in ogni dove, come si trasforma il conflitto? E chi sono i suoi attori in un contesto in cui non ci sono più luoghi separati, ma avviene, più semplicemente, la separazione dei luoghi? In buona sostanza, è possibile formulare un'ipotesi politica sul ruolo di soggetto collettivo della trasformazione, rispetto a questa nuova massa multiforme di esclusi di ogni genere? Mike Davis risponde, seccamente e con un po' di rammarico, che “portentose speculazioni post-marxiste, come quelle di Negri e Hardt, su una nuova politica di 'moltitudini' negli 'spazi rizomatici' della globalizzazione restano non fondate su una reale sociologia politica”. Ciò non di meno non può evitare di concludere, e in qualche modo di sperare, che “se nello slum globale non esiste un soggetto monolitico o una tendenza unilaterale, sono presenti però innumerevoli atti di resistenza. Anzi, il futuro della solidarietà umana dipende dal rifiuto militante da parte dei nuovi poveri urbani di accettare la loro marginalità terminale all'interno del capitalismo globale”. A Palermo come nel resto del mondo. Totò Cavaleri * Mike Davis, durante le ricerche per il libro, ha però visitato Palermo nella scorsa primavera. Ci sono tracce di questo passaggio nell'ultimo numero di CyberZone (n°20). -- |